UN GIORNO PER NON DIMENTICARE

27 Gennaio
GIORNATA DELLA MEMORIA
 
L'Olocausto rappresenta uno dei momenti più bui della storia contemporanea. Non solo per i milioni di vite stroncate senza motivo, ma anche perché ci sono persone che non solo non hanno voluto vedere ciò che accadeva, ma che tutt'ora negano che quelle atrocità siano mai avvenute.
Per questo è importante non dimenticare, non lasciare che la verità vada persa e la lezione impartitaci dimenticata. I sopravvissuti ai campi di concentramento continuano a raccontare la loro storia, a tramandare i ricordi delle atrocità viste e vissute, ma penso che sia dovere di tutti contribuire come possono.
 
Cabine di guardia delle SS
Nel 2004, grazie ad un progetto della regione, la scuola ci portò a visitare il campo di concentramento di Majdanek in Polonia. È stata una delle esperienza più forti che abbia mai fatto e vorrei condividerla con voi.
Majdanek era uno dei più grandi campi nazisti in Europa. Tra il 1941 e il 1944 vi furono detenuti circa 300.000 prigionieri e ne perirono 235.000 in maggioranza ebrei, polacchi e cittadini sovietici.


Ormai sono passati dodici anni e non ho mai avuto una grande memoria per i dettagli, però ci sono cose che è impossibile dimenticare. Ad esempio non ricordo quasi niente della città e dei tre giorni di visita, mi rimane solo qualche vaga immagine qua e là, come ad esempio ricordo la linea rimasta sul suolo dove un tempo sorgeva il muro che separava il ghetto dal resto della città.
Divisa di un
prigioniero comunista
Ma ricordo chiaramente il freddo della mattina che visitammo il campo. Un freddo inteso e pungente che ti entrava dentro, penetrando i vari stradi di vestiti che indossavo. Era intorno a mezzogiorno, il momento più "caldo" della giornata e la temperatura si aggirava intorno a -14°. Il mio pensiero  andava ai prigionieri e alle loro divise così fine e logore. Continuavo a chiedermi come avevano potuto sopportare quel gelo. Per quanto mi sforzassi non riuscivo ad immaginarlo.
Poi ricordo il paesaggio di un desolante e sconfinato bianco. Tutto intorno a noi c'era un'infinita pianura ricoperta di una spessa coltre di neve, su cui spiccavano le sagome scure delle baracche di legno e delle cabine di sorveglianza delle SS.
Vederlo da dentro faceva tutto un altro effetto. Il filo spinato, le cabine di sorveglianza, le baracche. Era tutto reale e, nonostante il campo occupasse uno spazio vastissimo, delineavano una realtà soffocante.
 
Ma ciò che non potrò mai dimenticare è il forno crematorio. Fu una delle prime stanza che visitammo, ripercorrendo quello che era lo stesso percorso dei prigionieri. Ancora adesso ripensandoci rammento l'odore di carne bruciata che mi investì una volta entrata. Ne rimasi sconvolta.
Forno crematorio
Nonostante fossero già passati più di 50 anni, l'odore impregnava ancora la stanza, come se i forni fossero appena stati spenti. Sentii salire la nausea. Improvvisamente tutte quelle che fino a quel momento erano state solo parole sui libri divennero reali, tangibili. Ripensavo alle storie che avevo letto, alle testimonianza, a tutto ciò che sapevo. Ora assumevano tutto un altro senso.
Vorrei riuscire a descrivere meglio ciò che sentivo, ma non credo che esistano espressioni abbastanza forti per riuscirci.
Fin dalle scuole medie il periodo dell'Olocausto aveva attirato il mio interesse spingendomi a documentarmi e fare ricerche che esulavano dal percorso scolastico. Alle superiori avevo letto molte storie scritte dai sopravvissuti, molti documenti e libri che parlavano delle leggi razziali e del progressivo aggravarsi della situazione. Ricordo anche che avevo deciso che l'anno successivo, per la maturità per cui avremmo dovuto portare un progetto che con un solo tema riuscisse a collegare quante più materie possibili, io avrei portato proprio l'Olocausto. Per questo poco prima di partire avevo iniziato a leggere, per la prima volta, qualcosa che fosse stato scritto da un SS: "Comandante ad Auschwitz" di Rudolf Höß.
Il libro spiega con agghiacciante freddezza la psicologia dei nazisti e il funzionamento delle officine della morte. Nonostante siano passati dodici anni ricordo che prima della visita al campo di Majdanek stavo leggendo di come il comandante si compiaceva della scoperta delle camere a gas (spiegandone entusiasta il funzionamento) e di come queste evitassero i traumi psicologici di cui spesso soffrivano le SS a causa delle esecuzione a sangue freddo di tanti uomini.
Dopo la visita al campo chiusi quel libro e da allora non sono più riuscita a riaprilo.
 
Poi ricordo i letti e le cuccette che anche vuote davano l'idea di uno spazio piccolo e affollato. Nelle cuccette ammassavano anche tre persone insieme e nell'insieme ospitavano dalle 500 alle 800 persone. Ma queste erano niente se paragonate ai giacigli di paglia, che non erano niente più di un mucchietto di paglia poggiata sul terreno freddo e su cui era adagiata un'unica coperta. In quelle stesse baracche le assi delle pareti non toccavano il terreno e la neve ed il freddo erano liberi di entrare.
 
Nelle camere a gas non ho avuto il coraggio di scattare delle foto. Proprio non ce l'ho fatta.
Sulle pareti si potevano vedere i graffi incisi con le unghie dai prigionieri in procinto di morire.
Era agghiacciante. Ti lasciava senza parole e con un senso di impotenza che era difficile da accettare. Era impossibile non pensare a l'orrore di cui quelle quattro pareti spoglie erano testimoni, della disperazione e dell'agonia di chi, nel vano tentativo di scappare, aveva graffiato con le mani nude quelle spesse mura di cemento.
I prigionieri venivano uccisi liberando due gas: lo Zyklon B e l'ossido di carbone. Il primo uccideva in 10 minuti, l'altro poteva mettercene anche 40, e posso solo immaginare quanto potessero sembrare lunghi quei pochi istanti a chi si contorceva da dolore, mentre  le SS al sicuro nella loro cabina, guardavano attraverso una feritoia tutti quegli esseri umani morire.
Ero ammutolita. Ammutolita ed arrabbiata. Davanti agli occhi avevo i segni lasciati dal dolore e dalla disperazione di chi stava morendo e nella testa mi echeggiavano le parole del libro dove il comandante di Auschwitz elogiava l'efficienza dell'uso delle camere a gas.
 
Mausoleo con le ceneri
E poi ricordo il Mausoleo, una costruzione in cemento dentro cui erano riversate le ceneri di tutti gli ebrei morti in quel campo. Ricordo la marea di persone (non solo studenti della mia scuola) che era presente ed il silenzio irreale in cui tutto era immerso.
Davanti agli occhi avevamo un edificio enorme che conteneva una montagna smisurata di ceneri umane, resti di ciò che un tempo erano state persone. Erano così tante.
Non c'erano parole. Non ce n'era bisogno.
 
Restammo in Polonia per un totale di tre giorni e visitammo altre cose: il ghetto, alcune zone distrutte dai bombardamenti e poi ricostruite, ascoltammo le testimonianze di chi era riuscito a sopravvivere, ma niente di tutto ciò mi colpì così nel profondo come l'aver visto con i miei occhi il campo di concentramento.
Lo scopo dell'iniziativa era quello di fare vedere da vicino a noi ragazzi le prove dell'Olocausto, farci vivere il lungo viaggio in treno (anche se noi eravamo comodamente alloggiati nelle cuccette e i prigionieri venivano trattati come bestie), farci diventare testimoni, affinché quando i sopravvissuti non potranno più raccontare la loro storia, toccherà a noi fare in modo che le generazioni future non dimentichino, in modo che un simile errore non debba ripetersi anche in futuro.


Nomi dei prigionieri
del campo di Maidanek


 

4 commenti:

  1. Spetta a noi il triste compito di NON DIMENTICARE

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  2. Terribile. Agghiacciante. E ogni volta mi sorprendo che tutto questo sia successo veramente. La cosa che mi è piaciuta è che sei riuscita a rendere molto intensa la presenza nel campo di concentramento, per chi legge, per via dei dettagli. I documentari in genere non ne citano. Valeva la pena, complimenti.

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    1. Credo che chi può dovrebbe andare a visitare quei luoghi almeno una volta. È un'esperienza intensa che ti fa davvero aprire gli occhi!

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